Diario di Zona, quarta pagina

Nevica molto a Torino, in alcuni giorni si lavora con temperature abbondantemente sotto lo zero.
Il freddo non aiuta, il raffreddore neanche.
Uso i mezzi pubblici solo due giorni, a causa della troppa neve. Dover dipendere dalle corse non mi piace e l’aumento del costo del biglietto lo trovo esagerato. Sorrido giocando con lo slogan della GTT: una stretta ai clienti, una mano ai controlli.

Zone 750, 751, Borgo Vittoria: via Giachino / via Orvieto / via Verolengo / C.so Mortara

In via Enrico Giachino, partigiano, hanno da poco dipinto su un muro di una casa, all’angolo con C.so Brin, un murales con un piccione viaggiatore dentro una casetta. A me il murales, francamente, non piace molto. Ma tant’è.

C’era un bar urfido in una via che incrocia via Giachino, brutto davvero, dove non ho mai preso neppure un caffè. Il bar è chiuso da almeno sei mesi.
Potrei tirare dritto: il contatore è nella cantina del Bar, che è chiuso. “Fà il tuo lavoro e fallo bene.” mi dico ricordando la frase che si ripete il protagonista de La lingua di Fuoco. Suono ai citofoni alla ricerca della chiave. Alla mia richiesta, una voce di donna mi dice: sì, arrivo subito.
È una signora sui 70 anni, sguardo diretto e limpido, mi sorride.
Signora, mi sa dire se il Bar è chiuso definitivamente?
Il Bar è andato dal culo, con rispetto parlando.
Sorrido, faccio finta di non aver capito.
Come dice, scusi?
È andato a ramengo, l’hanno fatto andare in malora.
Mi fa strada, apre un paio di porte, poi la porta di servizio del bar e ancora quella che da nell’atrio del palazzo e mi dice:
Io e mio marito abbiamo tenuto questo posto lucido come uno specchio per 50 anni.
Vedo che ha gli occhi lucidi, la voce trema un pochetto. Si ricompone subito e dice:
Questi, in 5 anni, l’hanno fatto fallire.
Si fa da parte e mi fa vedere il disastro che hanno lasciato: alcuni scaffali hanno le assi spaccate, il bancone è schifosamente sporco, alcune bottiglie in giro, un tavolo con una gamba rotta e qualche sedia buttate a terra. Fili elettrici pendono dal soffitto. Passiamo nella sala sul retro dove, ricordo, c’era un malconcio tavolo da biliardo.
Quando lo gestivate lei e suo marito cosa c’era qui?
Qui imbottigliavamo il vino. C’erano alcune botti, le bottiglie…
Ricordo che avevano messo un biliardo.
Qua è passato di tutto, dice con stizza: droga, soldi, puttane. Parlano tanto degli stranieri… ma quali stranieri? Questi sono italiani. Mi viene una rabbia. Venga a vedere, ci sono le macchinette sequestrate. Scendiamo in cantina, ci sono alcuni videopoker con i sigilli della polizia.
Signora, non lo hanno fatto, ma se m‘avessero offerto un caffè avrei declinato l’invito.
Sorride e, mentre traffico col contatore sporco e quasi illegibile, riprende a raccontarmi di com’era il bar, anzi, la vineria. Torniamo su e mi descrive com’era la sua vineria, gli scaffali, le file di bottiglie, le botti, i liquori, dove stavano le sedie e i tavoli.
Parliamo ancora un po’, ridiamo della pelata dell’ex barista e della sua aria da magnaccia.
Alla fine mi da del tu, potrei essere suo nipote in effetti.
La saluto e torno per strada.

In c.so Brin c’è la Scuola di Carità Arti e Mestieri. Ha l’aria di essere uno di quei posti, dove si approda nella speranza di poter presto andare a lavorare, senza dover stare troppo tempo sui libri.
Una scuola privata, legata alla chiesa, piena di ragazzi e ragazze distribuiti fra torni e asciugacapelli.
Aspetto nell’atrio, dove sta la segreteria, che arrivi qualcuno che mi possa accompagnare per fare la lettura. Mi appoggio a un muro e riprendo a leggere da La scuola e di tutti. Tengo il libro in alto, bene in vista.
Sto leggendo il “capitolo 5. I mercanti nel tempio” e mi diverte l’ironia della cosa.
L’attesa dura almeno dieci minuti. C’è un po’ di viavai nei corridoi e qualcuno passando mi guarda, come al solito spero che si incuriosisca e si appunti il nome del libro.
Arriva il mio uomo, in tuta da operario. Entriamo nello spogliatoio dove si trova il primo contatore, tre ragazzi di 14-15 anni stanno indossando una tuta da lavoro sopra i propri vestiti. Con loro c’è un uomo che dalla postura e dal modo con cui sta parlando immagino sia un loro professore.
Dai, che siete in ritardo, dice.
Non abbiamo visto nessuno in ingresso e pensavamo non ci fosse nessuno, prof.
Voi non dovete pensare, dovete fare quello che dico io, intima il prof.
Nessuno risponde.
Mi soffio il naso il più rumorosamente possibile, ed esco dallo spogliatoio.
Chiedo al tizio che mi accompagna se la scuola sia pubblica o privata. Mi guarda un po’ pensieroso e mi dice che è pubblica. Una bugia, non so neanche quanto consapevole.

Dal libro di G. De Michele: “Con una mano, le lobby cattoliche agitano l’allarme sull’emergenza educativa per denigrare e svilire la scuola pubblica; con l’altra mano, attingono a volontà alla cassa dell’affare-istruzione, grazie a quei fondi che si rendono disponibili con i tagli alla scuola pubblica.”

Nel cortile, dove sta il 2° contatore, incontriamo un gruppo di donne che si muove piano e in fila lungo il sentiero creato nella neve. Età compresa fra i 30 e i 50 anni, tutte di colore. Chiedo quale corso stiano seguendo. Il mio accompagnatore mi dice che sono lì per imparare ad aggiustare i letti, lavare, stirare e pulire le camere, così da poter lavorare in qualche albergo.
Resto in silenzio. In una scuola privata, di orientamento cattolico, oltre al corso per fare la parrucchiera c’è quello della massaia da ricollocare in alberghi o come collaboratrice domestica, badante.

Zona 753 Lucento: C.so Svizzera / C.so Potenza / C.so Toscana / Via Borgaro / via Pianezza

Una zona piuttosto estesa che per un bel pezzo rientra nel Parco Dora, palazzi enormi come quelli costruiti di recente a ridosso delle officine savigliano e case monofamiliari di via Viù e via Balangero. Nelle prime è una impresa trovare qualcuno disposto anche solo ad ascoltarti, nelle seconde tutto fila liscio e piuttosto velocemente.
Nelle ex officine, nella zona di via Nole, mi aggiro alla ricerca del tombino in cui sta il contatore. Seguo il viale centrale a lato dei piloni della fabbrica, ora adattati a far da sostegno al ponte che corre sei metri più su. Ha un certo fascino il nuovo parco, lo scheletro della fabbrica è ben visibile, e sarà che siamo all’aria aperta ma non sento aleggiare la stessa pesante atmosfera che, al Lingotto, accomuna galleria commerciale, galleria commerciale, uffici e alberghi.
Incontro una scultura che in cima ha il palindromo EN GIRO TORTE SOL CICLOS ET ROTOR IGNE. Mi fermo a guardarla, non l’avevo vista prima, e mi chiedo se il quadrato di vetro che sta alla base inclinato di circa 45° sia crepato per volontà artistica o altro.
Trovo il tombino, lo apro e il contatore è circa 2,5m più in basso. Niente scaletta. Pensare di fotografarlo dall’alto è inutile, non si vedrebbe nulla se non un puntino. Intorno non c’è nessuno, se non dovessi riuscire a tornare su ci resterò un bel po’ lì dentro. Vedo alcuni appigli e vado giù. In fin dei conti la cosa mi diverte e impaurisce al tempo stesso. Mi puntello contro la parete di cemento e scendo piano, stendo il braccio per quanto riesco e scatto la foto, scrivo la cifra segnata e torno su. Per essere uno di quelli cresciuti col ricordo del piccolo Alfredino Rampi ho risolto la paura di tombini e pozzi, anche se l’uscita è sempre accompagnata da un sospiro di sollievo. Così mi stendo sulla neve, a guardare per un po’ il cielo su Torino.

Perché volete essete liberi e autonomi, perché prendervi carico dell’intero peso delle vostre decisioni, quando c’è qualcuno che può farlo per voi? G. De Michele

La maggior parte dei contatori dell’acqua in città sono all’interno delle cantine, nei corridoi. Molti di questi sono all’interno delle caldaie, dei locali dell’autoclave, o all’interno di cantine private. I proprietari di queste cantine, di solito, sono infastiditi della presenza del contatore e ognuno di loro ci tiene a dire la sua: non sono un custode, non lavoro per il condominio, non lavoro per l’acquedotto etc etc. I nomi dei referenti spesso sono segnati sul palmare.
Per fare una lettura in via Pianezza devo entrare in un negozio di parrucchiera/pettinatrice o pennoira in piemontese. Il locale è affollato da signore in attesa, altre sotto i ferri, in molte parlano, altre leggono le riviste che stanno ammucchiate in pile piuttosto alte e sbilenche.
Le chiavi non si trovano, le ragazze che lavorano lì le cercano, la titolare non c’è e quindi non mi resta che andar via e tornare più tardi.
Torno in via Nole e vado alla Scuola elementare Margherita di Savoia. Trovo i locali dove stava la mensa ancora chiusi e con i divieti di ingresso da lavori in corso. La porta è bloccata e dopo un bel po’, e con fatica, riesco ad aprirla. Faccio la lettura e vado a restituire la chiave e firmare il registro delle visite. Avviso le bidelle dello stato della porta e che giù si sta accumulando sporcizia. Loro si lamentano del fatto che i lavori sono bloccati da anni, e l’accesso alla mensa è vietato.
Siamo solo in due in tutta la scuola, mi dicono, ci sono stati i tagli e da sole non riusciamo a fare tutto.
Non posso non notare che in quel momento in effetti hanno a che fare con me, con due professori che son li a firmare non so cosa, e con una bambina che, seduta su una sedia, aspetta l’arrivo di mamma o papà.
Torno dalla pennoira che, truccatissima, si lancia alla ricerca delle chiavi. Svuota cassetti, la borsa, cerca nel cappotto, ma non le trova. Chiama suo marito, il figlio, chiede a una delle sue aiutanti di andare su in casa a compiere la ricerca. Aspetto, mi guardo in giro e una rivista attira la mia attenzione, ha come titolo “Medjugorje”.
La prendo e comincio a sfogliarla.
Trovo un’intervista alla Tamaro e razionalizzo il perché della mia repulsione istintiva ai suoi libri.
La scrittrice considera Medjugorje un avamposto cattolico di importanza mondiale. Rabbrividisco.
Non so quanto tempo ho a disposizione prima che torni la pennoira e mi appunto un paio di frasi:
Domanda: A lei non piace vivere in modo complicato?
Risposta: Assolutamente no! Rendiamo tutto più semplice. Perché la realtà, pur nelle sue fatiche e difficoltà, è semplice.
Per poi dilungarsi su quanto sia più semplice affidarsi a un ente superiore che, in virtù della sua superiorità, possa guidare i poveri e incompleti esseri umani a vivere etc etc etc.
Mi riporta alla complicata realtà una voce che, dispiaciuta, mi dice di non trovare le chiavi. Alzo lo sguardo e vedo la titolare che sorridendo e indicando la rivista aggiunge: le interessa?
Moltissimo, dico.
Con fare sicuro ed efficiente, mi allunga il programma dei viaggi previsti per il 2012 verso l’avamposto mondiale del cattolicesimo, con relativi costi.
Mi consiglia vivamente quelli del 2 maggio e del 2 luglio, per poter così assistere all’apparizione.
Di chi? chiedo innocente.
Della madonna, io ci sono stata un anno fa, è stato bellobello, mi dice.
Appare a tutti?
No, solo alla veggente.
E avviene due volte l’anno, puntuale. Dev’essere stata intensa come esperienza, chiedo.
Guardi, un botta. Sono tornati tutti… tutti cambiati.
In meglio?
Mi guarda, si prende un attimo di pausa, sospira un “Eh”; poi tornando alla concretezza del negozio mi chiede: Allora ti prenoto?
Ci devo pensare, signora.

In via Giuseppe Bravin c’è la targa dedicata a Mario Roveri, partigiano.

Sul cancello del passo carraio di una casa campeggia il cartello “attenti ai cani”. Ha il tipico aspetto di una casa del mio sud, non è finita. Suono e si affaccia il capo famiglia, circa 70 anni, mi squadra e mi chiede cosa voglio con fare burbero. Glielo spiego, apre il cancello ed entro, nessun cane.
Mi accompagna in cantina.
Mentre dò una pulita al vetro del contatore, lui è a mezzo metro da me, controlla ogni cosa.
A bruciapelo spara deciso:
Ici ca devono venire a cambiarlo il contatore.
Ici ca…
Che poi: pecchì l’hannu ‘e cambiare?
È normale, quando son troppo vecchi vengono sostituiti.
Era venuto unu: devo cambiare il contatore. Che cosa? ci dissi, un cambi nente tu. Prima base principale di tutti, ci dici ai signori che t’hannu mandatu che ci vole una littera che m’avvisa. Che io un faccio entrare a nissuno a dire e fare. Ce lo poi dire ai signori toi. E così hanno fatto. Mi hanno mandato la littera e ci risposi con la telefonata e abbiamo preso appuntamento per il quindici. Così se fa. No che tu, coi tempi chi caminanu, mi mandi gente a fare, che non conosci. Che, dici tu, se ‘i conosci ‘i fai trasere ma atramente…; che poi, se trhaseno, voglio videre come fhanno a nescere.
In che senso?
No, perché, vidi ‘cchi dicenu alla televisione, che thrasenu, l’addormentau, i ddroganu.
Alla televisione esagerano.
Eh sì, dicenu nu sacc ‘e strunzate.
Ecco.

Zona 757 Madonna di Campagna: Piazza Villari / via Terni / via Foligno / via Cesalpino

La neve comincia a sciogliersi. Ci sono più auto in giro e ora tra i cumuli di neve ai bordi delle strade e i veicoli è un po’ più impegnativo andare in bici. Ma sul pullman non ci torno.
In via Foligno c’è una sede delle scuole tecniche operaie San Carlo. All’interno del cortile nell’angolo a sinistra trovo la targa dedicata a Domenico Brero, partigiano.
In questa zona di curioso c’è il pensionato dell’enel che colleziona trenini e ha invaso la sua cantina con un plastico artigianale ed enorme: 7 linee, carrozze e motrici sia sui binari che nei depositi, colline, gallerie e paeselli. Si piazza dietro la centralina di comando e inizia a manovrare sapientemente i treni, manca solo che indossi il cappello da capostazione, per il resto è perfetto. Nella stessa via vive un altro collezionista, di trofei sicuramente molto più virili. La cantina arredata è anch’essa enorme, alle pareti conto non meno di 26 teschi di cervo (credo che siano di cervo) con relative corna, di cui almeno 5 esemplari adulti, e due teste di cinghiali. Raggiungo il contatore, scatto la foto, digito i numeri sulla tastiera, riattraverso spedito il salone ed esco. Tutto in 20 secondi netti.
A un caso del genere preferisco i tombini.

Tool – Sober

foto by Satyrika