Treno Cavallo e Tram – VII / Regio Parco
Dopo la carica a Fayance poi ripartimmo: era l’8 settembre del ’43. Arrivammo la sera a Settimo; il treno si fermò, nella piazza davanti alla chiesa. Eravamo 1200 uomini e 1200, anzi 1250 cavalli – perché ce n’erano in più se qualcuno si faceva male -. E restammo lì e la mattina dopo venimmo a Torino, per strada Settimo. In strada Settimo abitava la mia moglie. Io sono passato di lì, guardavo sul balcone con la speranza di vederla… non ho visto nessuno, così ho tirato dritto.
L’8 settembre, mi ricordo, i tedeschi erano già arrivati in caserma: c’erano due, quattro, sei tanks, carri armati, con le mitragliere, e si dovevano depositare le armi; io ho lasciato la sciabola e il moschetto. Poi ci diedero ordine di sellare i cavalli che si doveva andare in Germania. Si doveva andare a Porta Nuova, poi caricavano noi e i cavalli sul treno e ci portavano ai campi di concentramento. Io avevo già un fratello, a Mauthausen, Celio. Eh, se non è più a posto, può dire grazie… il suo lavoro era buttare i morti dentro il forno. Mi fa: Sai quanti ne buttavo, alle volte anche se non erano proprio… si buttava dentro. Deposito le armi, ci dettero ordine di sellare i cavalli, ci fecero uscire dal portone, era mezzogiorno, imboccammo corso Unione Sovietica per andare a Porta Nuova: 1200 uomini e cavalli in fila per tre. Io arrivai in via… quella via dove c’è il cavalcavia… arrivai lì, mi girai indietro e vidi il carro armato a cinquanta metri da me – ogni tanto trrrrr trrrrrr – e ne ho visti in terra… che brutta giornata. Dissi ai miei amici: Io vado. Piantai gli speroni nella pancia – povera bestia, gli saranno entrati in pancia – non faceva novanta la paura, faceva centottanta. Tagliai di lì, andai in corso Re Umberto, da corso Re Umberto imboccai la prima via che vedevo: via Cristoforo Colombo. E lì arrivarono: – prrrrrrrt – e il cavallo – totòc – io rimasi impigliato col ginocchio sotto il cavallo e non riuscivo a uscire. Tre donne sono uscite fuori dal portone e – tricchete tricchete tricchete tric – m’hanno tolto e m’hanno portato in cantina e mi hanno nascosto e poi hanno chiuso la cantina a chiave. Eh, i tedeschi giravano: come ti vedevano, non ti perdonavano.
Poi la sera venne di nuovo una da me, mi strappò i vestiti che avevo – non toglierli, me li strappò – e mi diede una tuta blu. Mi mise la tuta blu, mi accompagnò sopra, mi diede da mangiare, da dormire, restai due giorni là. E poi al terzo giorno mi disse: Vuole andare a casa? – Si, gli ho fatto. Si sa, volevo togliere anche a loro il fastidio. E mi accompagnarono al Regio Parco da mia sorella Corina, quella che è in Belgio. Poi venne ad abitare lì anche l’altra mia sorella, proprio vicino ai tabacchi.
Un fatto. Ce n’era poco da mangiare e mi ricordo, una mattina scendo e vedo il gatto della cooperativa. Un gattone… che bellezza! Io l’ho guardato, mi sono leccato i baffi. L’ho chiamato, è venuto, l’ho accarezzato, l’ho preso in braccio: Vieni con me… Girato l’angolo… un colpo solo. Poi me lo son nascosto dentro la giacca; a casa l’ho pelato bene tutto, ho tolto la pelle, le budella, tutto. Alla sera tra me, lei e le mie cinque o sei nipoti che c’erano: sparito completamente. Com’era buono… eh, alla cooperativa lo trattavano bene. L’ho trattato bene anch’io, va’. Eh, la fame, quando hai fame non si ragiona più.