Città vuota di Dejan Dukovski
Ho appena letto Zagreb di Arturo Robertazzi, da poco pubblicato da Aìsara. Un romanzo che racconta le vicende di una ‘Base’ dalle parti di Zagreb, una fabbrica abbandonata in cui un gruppo di pseudo-soldati ammassa e uccide prigionieri nemici.
Robertazzi è partito dalla guerra nella ex-Jugoslavia, ma non ci sono riferimenti espliciti (o quasi) a quel conflitto nel romanzo. La guerra è guerra ovunque.
E lui descrive la guerra con uno stile sorprendente per la finezza e perfino la poesia con cui riesce a descrivere eventi, odori e orrori.
Il protagonista del romanzo ‘lavora’ alla Base, e continua tranquillo il suo lavoro finché non trova tra i prigionieri il suo migliore amico e la ragazza di cui era innamorato e a cui non era mai riuscito a dichiararsi.
Così mi è tornato in mente Città vuota di Dejan Dukovski, un testo teatrale scritto nel 2008 e che avevo tradotto tempo fa, sulla scia di tutta una serie di altri testi di questo folle autore macedone: La polveriera (da cui ha tratto poi la sceneggiatura per il film di paskaljevic), I balcani non sono morti, Chi cazzo ha cominciato tutto questo?, L’altra parte.
Il linguaggio e lo stile di Dukovski però, per chi non lo conosce, sono completamente diversi… Grottesco, scurrile, cinico… molto ‘balcanico’, insomma.
In scena due fratelli: Gjore e Gjero. Gli ennesimi Estragone e Vladimiro in attesa non di Godot, ma dello scoppio di quella che si aspettano sarà la loro ultima battaglia. Li troviamo uno legato e uno armato.
GJORE In tutto sto cazzo di esercito proprio me dovevi beccare.
GJERO In tutto sto cazzo di esercito – te.
Pausa.
GJORE E allora?
GJERO Cosa?
GJORE E adesso?
GJERO Che ne so.
GJORE Che sfiga!
GJERO Che sfiga.
Non si vedono da quando è scoppiata la guerra – perché Gjore ha tentato di fare fortuna in America – e adesso si scoprono ciascuno arruolato in un esercito diverso.
L’assurdità della situazione è esaltata da discorsi vaneggianti, costellati da balle continue.
Decidono di godersi l’ultima notte nella città vuota, rapinare una banca, vestirsi per bene, andare al ristorante, al casinò, a teatro, in un bordello, in chiesa… Continuano a rivangare errori e misfatti dai toni grotteschi e assurdi, giocando in fondo sempre ad essere ‘qualcun altro’, anche se alla fine è poi lo stesso. Stessa cosa, da che parte della barricata si è finiti.
L’ultima scena si intitola “Roba verde”, una roba verde che galleggia sul fiume e su cui salgono assieme, perché tanto, come dice Gjero, non hanno più niente da perdere.
Dejan Dukovski, Prazen Grad, © Verlag der Autoren Frankfurt am Main, 2008
Per chi è interessato, traduzione di Roberta Cortese disponibile in lettura. Scrivete.