Diario di Zona, settima pagina
Continua a piovere.
Pedalo tranquillo nel traffico. Il cappellino con la visiera, che tengo sotto il cappuccio della giacca impermeabile, impedisce alle gocce di annebbiare le lenti degli occhiali. I pantaloni sono già zuppi di pioggia e le mani infreddolite. La zona è una delle più lontane da casa. Per un po’ percorro una pista ciclabile, che di ciclabile ha l’asfalto colorato di rosso e basta. Di fatto è più un percorso a ostacoli: i pedoni la attraversano di continuo senza guardare, qualcuno la usa come parcheggio, qualcun altro come latrina per i cani e comunque si interrompe presto.
Sono le 8.00 del mattino, ancora mezz’ora di pedalate fra pozzanghere e auto e bus. Io un manuale di sopravvivenza urbana non l’ho letto, ma dopo più di un anno in sella alla bici in giro per Torino, capisco al volo quando è meglio occupare il marciapiede e rischiare una multa piuttosto che finire all’ospedale, nella migliore delle ipotesi.
Mi preoccupa un po’ lo stato della ruota anteriore. Non l’ho mai sostituita e mi sa che dovrò mettere da parte i soldi per cambiare il battistrada.
Zona 905 Santa Rita: C.so Siracusa / C.so Sebastopoli / Via Gorizia / via Tirreno
Solito tran tran, il palmare è come fosse una protesi della mano, mi detta la quantità di lavoro da fare e i tempi. Lavoro da solo e per strada, ma so che la prima foto che scatto è l’equivalente del passaggio del badge all’inizio del turno di lavoro in una fabbrica o in un ufficio. La mia fabbrica è la strada e la catena di montaggio è fatta di contatori, citofoni, tombini, numeri civici e persone.
L’orologio incorporato nel palmare associa un orario alle foto, così la produzione è scandita, e vengono registrati gli intervalli fra una foto e l’altra. So che esiste un margine di tolleranza, si tiene conto che un tombino può essere bloccato, o che le chiavi che abbiamo in dotazione non aprano un accidente, o che per trovare una persona disposta a farci entrare si debba prima chiedere a tutti i condòmini/inquilini. È tutto segnato. Una persona esperta del lavoro credo possa leggere se un dato intervallo è relativo a una pausa per un caffè o a una discussione. È sottile il funzionamento della macchina, ne sento il peso a fine giornata quando, scattata l’ultima foto, invio tutte le letture dopo essermi connesso al server dell’azienda, il lavoro è finito e l’ambiente intorno mi appare diverso, tanto che spesso dopo aver fatto la doccia sento il bisogno di andare a fare due passi.
Ci sono dei condomìni in cui non si riesce ad entrare, non c’è niente da fare. Mi sorprendo di come si siano fissati nella mia memoria e come emergano una volta che me li ritrovo davanti. Nella mia tassonomia mentale sono catalogati alla voce “condomìnio stronzo”. Non tanto le persone, almeno non tutte, ma proprio l’edificio è sordo, ottuso. Alcuni in questa zona stanno fra c.so Sebastopoli e via Gorizia.
– Buongiorno devo fare la lettura del contatore dell’acqua, può aprirmi la porta della cantina?
– Questa è una delle più grosse cazzate che ho sentito.
– Si vede che è un esperto.
– ‘Cazzo vuoi? Vengo giù e ti spacco la faccia.
– Ma vaffanculo và.
La tentazione di passare oltre è sempre forte. Perché perdere tempo? Però sto lì a tentare, ogni volta. La prendo come una sfida e capita di trovare la porta principale solo accostata, decido di entrare e controllare se la porta della cantina non è stata chiusa a chiave, e a volte è così. Apro la porta, filtra la luce dalle grate poste sulla strada e non accendo la luce. Chiedo se c’è qualcuno e comincio ad andare giù rumorosamente. Arrivo nel corridoio e con la coda dell’occhio percepisco un movimento alla mia destra. Mi volto e mi trovo una coppia di ragazzini abbracciati. Lui mi guarda imbarazzato, con un timido sorriso stampato in faccia alza la mano in segno di saluto, lei mi dà le spalle. Chiedo scusa e dico: pochi secondi e vado via. Mi avvio verso il contatore e sento che mi vergogno come un ladro. Sento d’essere l’adulto che arriva a rompere le scatole. Velocissimo faccio il mio lavoro e vado via. Loro restano immobili. Spero che trovino un posto migliore dove scambiarsi un po’ di carezze.
in via Gorizia incontro la targa dedicata al brigadiere Giuseppe Ciotta, mi sono avvicinato pensando fosse una targa dell’Anpi. Mi sono chiesto quanto ancora ignori dei cosiddetti anni di piombo, quanto ancora si dovrà subire la narrazione dominante. Quella sì che è di piombo. Mi chiedo quando e se usciremo dagli anni ’80, questo decennio che ci sta morendo addosso da trent’anni.
Continuo il giro, un uomo in monovolume, all’altezza di via Mombarcaro, non rispetta la precedenza e mi taglia la strada. Scarto e riesco a evitare lo schianto, lo mando af’fanculo e riparto con calma, lo raggiungo al semaforo con c.so Sebastopoli. Busso al vetro del lato passeggero e lui non si gira, lo sguardo fisso sulla luce del semaforo. Busso di nuovo, niente. Mantiene un aplomb sabaudo da mummia del museo egizio. Scatta il verde, ingrana la marcia e se ne va a morì ammazzato da qualche altra parte.
Incontro persone strambe ogni giorno, ce ne sono alcune che ormai sono un appuntamento fisso. Una di queste è una signora che vive in un villetta con un piccolo giardino. Ad accogliermi ci sono tre cani, tre esemplari di pastore belga che appena suono al campanello cominciano a saltare come canguri.
La signora sbircia dalla finestra, chiede cosa voglio e una volta rassicurata apre il cancello e mi dice:
Venga venga pure, non abbia paura. Vogliono solo giocare.
Venga venga.
Sa, l’altro suo collega ha paura perché sono grossi, ma vogliono solo giocare. I miei cani sono dei giocherelloni, sono intelligentissimi, sa? Il loro padre era uno sminatore, paracadutato con i soldati inglesi durante la seconda guerra mondiale.
Ogni volta mi lascio annusare, accarezzo i cani (che per essere nati nella metà del secolo scorso hanno una bella energia) e faccio la lettura del contatore che è all’interno del giardino. Nel frattempo la signora loda il mio atteggiamento, così diverso da quello del mio collega passato tre mesi prima.
L’altro appuntamento fisso è quello con la coppia, fratello e sorella, che vivono in un bella casetta indipendente. Questo è uno di quei casi in cui la tentazione di lasciare un modulo per l’auto lettura e passare oltre è fortissima.
Di solito ad aprirmi è la signora, che da dietro la porta a vetri mi chiede cosa voglio. Dopo la mia spiegazione mi dice: ha la faccia rassicurante, la faccio entrare. Guardi , la cantina è aperta, non la accompagno e non metta ordine mi raccomando.
Sorrido, o meglio stiro le labbra e cerco di nascondere la voglia che ho di andare via.
Accendo la luce e scendo le scale, arrivato a metà il tanfo è già insopportabile. Tiro sul muso e sul naso la sciarpa. Spingo la porta che sta al fondo delle scale, accendo la luce che dà nell’interno e due piccioni volano via spaventati. Un tappeto di guano è steso all’ingresso della cantina, piume, cassette di pane raffermo, piccioni ovunque appollaiati su scaffali e tavoli. Supero cassette e roba abbandonata per terra e mi dirigo verso il contatore che sta nell’ultima stanza a ridosso del muro di contenimento della strada. I piccioni impauriti decidono di spostarsi e il rumore del battito delle ali mi richiama alla mente scene da Gli Uccelli.
Ho i brividi e la nausea comincia a montare. Scatto la foto, segno la lettura il più velocemente possibile con l’obiettivo di tornare fuori a respirare aria buona.
Ripercorro a ritroso il percorso fra le stanze con i piccioni che continuano a saltare da una parte all’altra, torno su.
Non so se lasciar stare o chiedere alla signora se è igienico tenere uno stormo di piccioni in cantina. Mi legge nel pensiero e mi dice che suo fratello è un appassionato e di non stare a mortificarla.
Mi guardo intorno, nell’ingresso ci sono due stampe diverse del cantico delle creature.
Saluto e vado via. Arrivederci signore, mi dice.
Attraverso la strada, mi volto a guardare la casa. Lo stormo di piccioni è sul tetto.
Lì intorno ci sono altre casette incastrate fra un condominio e l’altro e alcuni bassi fabbricati che ospitano officine e auto-carrozzerie. Nell’aria c’è puzza di vernice e gas di scarico, alla faccia dell’aria buona penso. Incrocio un vecchietto che mormora tra se e se: cazzarola merda, post ëd le bale.
Lavorando per strada devi tenere conto che c’è sempre qualcuno che ti osserva, che ti ha avvistato, che ti ha sentito recitare la tua frase di presentazione a un qualche citofono. Qualcuno che osserva e aspetta che tu passi da casa sua. Aspetta paziente dall’altra parte della strada, indifferente, per poi avvicinarsi di soppiatto e chiederti: cosa vuole? chi cerca? Anche se conosce la risposta e tu lo sai.
Di solito è un esemplare maschio intorno ai 60 anni, forse in pensione ma non è detto. Lui saluta tutti, ha ciò di cui hai bisogno e lo sa. Chiede, indaga, tiene d’occhio la strada e scopri che è l’uomo delle chiavi. Hai bisogno delle chiavi della caldaia? Lui è l’unico fra tutti i mille condòmini ad avere quella benedetta chiave. E tu hai avuto fortuna ad incontrarlo, una fortuna sfacciata. Ci tiene a sottolineare la cosa. Lui ti ha visto andare in giro a chiedere, anche questo alla fine ci tiene molto a fartelo sapere.
Alcune volte l’uomo delle chiavi ha un aneddoto da raccontare, muore dalla voglia di raccontarlo. Così ti fermi ad ascoltare, in un certo qual modo glielo devi, e avvii il registratore:
“Ma ti pagano? Sì, ma te lo dico io, non è come negli altri paesi. In Italia pagano poco. Io lavoravo al supermercato no?, sono andato in pensione e mo’ sto bene ho poche spese. Ma ne ho viste io: i ladri che prendevamo li denunciavamo ma mica andavano in prigione, niente. Quelli conoscono le leggi. E poi i politici, lo schifo dell’Italia. C’è da vergognarsi. C’hanno mandato lo scudiero a tenerlo sotto controllo, ma quello era n’assassino altro che scudiero. Quelli vogliono il resoconto. E quell’altra in televisione che diceva che bisognava votarlo perché è miliardario e non ruba. All’estero ci ridono in faccia. L’azienda dove ho lavorato è francese, no? Hanno comprato i supermercati italiani e qua ci sono i prezzi più alti che in Francia. Vai a vedere, ci vuole niente a passare il confine. Hanno tutti i prezzi più bassi perché lo sanno che qua siamo imbecilli e ci prendono per il culo. Poi ti fanno lo sconto, tanto è sempre superiore di quanto lo vendono in Francia. Io ogni tanto vado là, prendo la mia signora e via, lì mi chiedono “sei italiano?” e mi ridono in faccia. A me mi da un fastidio… Eh caro mio, la vita è un combattimento continuo. Ma se ti mettono sempre i bastoni fra le gambe come, cazzo fai a combattere? A parte che stangare i capitalisti, stì strunz… va bè, va.”
In un androne, accanto alla scatola della raccolta carta, trovo “Tutte le Opere” di E. A. Poe ed. Meridiani Mondadori, in ottimo stato. Lo ficco nello zaino, con un sorriso ebete stampato sul viso.
Finisco il lavoro senza difficoltà. Letture terminate. Non piove più, il cielo è limpido e le giornate si stanno lentamente allungando. Salto sulla bici canticchiando I’m Shipping Up To Boston [Dropkick Murphys]