"Io sono forte" – Il caso Natascha Kampusch
di Peter Reichard
da “Die Zeit” N°3/2010 del 15.10.2010
Tre anni fa [ora 7, ndt] Natascha Kampusch sfuggì al suo rapitore – dopo 3096 giorni in una cella. Ora l’austriaca è tornata sul luogo del delitto con il nostro autore Peter Reichard.
Il 23 agosto 2006, verso le 13, una giovane donna attraversa di corsa i giardini di un quartiere residenziale nei sobborghi di Vienna. Ha colto l‘attimo favorevole per sfuggire all’uomo che l’aveva rapita quando aveva dieci anni, rinchiusa in una minuscola cella nella propria casa e tenuta come una schiava, per otto anni e mezzo. Tremilanovantasei giorni e notti. Alla giovane donna riesce la fuga. Il suo rapitore si toglie la vita. Da un giorno all’altro il mondo intero conosce il suo nome: Natascha Kampusch. E resta in attesa che lei racconti la sua storia. […]
Alla costruzione della propria leggenda ha contribuito involontariamente Natascha Kampusch stessa. Si è presentata al mondo, davanti alle telecamere, come una giovane donna sicura di sé e della bellezza di una madonna. Intelligente, loquace, parla quasi come un libro stampato. Niente a che vedere con una vittima. E questo sembra ora ritorcersi contro di lei. La semplice versione dei fatti non è gradevole. Ma è la verità.
Li abbiamo riesaminati parecchie volte con le autorità. Approfonditi con Natascha Kampusch, con sua madre, col migliore amico di Wolfgang Priklopil, il nostro testimone principale davanti alle telecamere. Resta tutto vero: Natascha Kampusch è stata rapita, tenuta prigioniera, torturata, dominata da un unico uomo. Un uomo a sua volta dominato a lungo dalla propria debolezza, finché non rapì e rinchiuse quella bambina, così da attingere tramite lei nuova forza e superiorità. Non abbastanza evidentemente, perché a soggiogarla davvero non ci è riuscito. Lei ha saputo resistere alle scorie psicologiche accumulatesi in Wolfgang Priklopil. Alla fine è scappata. Lui si è ucciso, lei vive. […]
È seduta di fronte a noi, ci descrive il suo rapimento il 2 marzo 1998. Come Priklopil improvvisamente la trascinò sul suo furgone bianco mentre lei era sulla strada di casa, la gettò sul fondale, si arrampicò al volante e partì a tutta velocità. Come poi, avvolta in una coperta blu, la portò nella minuscola cella della sua casa di Strasshof, distante solo mezz’ora di auto. Come la tenne rinchiusa dai sei ai nove mesi – esattamente non lo sa, aveva perso qualunque senso del tempo -, prima di farla salire nel suo appartamento, con le veneziane abbassate, nella luce diffusa. La controllava, la sorvegliava, la minacciava. E lei? Disimparò a piangere. Le lacrime lasciano tracce sulle piastrelle lucidate. Questo Priklopil, da fanatico della pulizia qual’era, non lo tollerava. Gliele sfregava con violenza sugli occhi. Nel corso degli anni ogni tanto la portò con sé in giardino, di notte, per qualche minuto. Lei assorbiva l’aria fresca. Passava la mano sull’erba, sui fiori. Implorava di poter prendere con sé un rametto nella cella sotterranea. Le fu concesso e fu poi punita subito dopo con un digiuno forzato, perché sul tavolo della cucina aveva lasciato un’impronta che lui si era affrettato a pulire, afferrandola con forza, con il dorso della mano di lei. Una vita in un inferno, sotto il giogo di un diavolo che nonostante occasionali gentilezze restò un diavolo. Con cui lei doveva lottare per ogni sciocchezza.
Era felice quando non doveva stare con lui nell’appartamento e poteva restarsene invece nella sua cella. Nel suo mondo stretto, sepolta da libri, matite e carta. Più tardi con una radio e un televisore con cui poter guardare dei video.
Pochi mesi prima che Natascha Kampusch sfruttasse un attimo di distrazione per la sua fuga, Priklopil l’aveva portata alcune volte con sé in mezzo alla gente – la stessa che oggi comprende con tanta difficoltà perché già allora lei non abbia colto l’occasione per scappare o per lo meno per chiedere aiuto. La sua spiegazione: semplicemente non aveva fiducia nel fatto che le persone avrebbero immediatamente colto il pericolo in cui si trovava e che avrebbero saputo agire di conseguenza. Perché Priklopil l’aveva minacciata di uccidere immediatamente lei e possibili liberatori. Come avrebbe potuto fare affidamento su persone a cui in tutti quegli anni era stata resa estranea dal suo rapitore, sui cui bisogni da allora si concentrava tutta la sua vita? Come avrebbe potuto rompere questa barriera psicologica?
“Le persone“, dice, “dovrebbero solo fare l’esperimento e mettere il loro gatto fuori dalla porta di casa. Lui si metterà a sedere dopo sette o otto scalini senza più muoversi e inizierà a miagolare, per paura della libertà. Paura che accada qualcosa. Perché partirà dal presupposto di essere poi subito riportato dentro e di essere punito. La stessa cosa accade a una persona tenuta isolata tanto a lungo come me.“ […]
Forte lo era ancora prima di essere rapita. Intelligente, ma soprattutto socialmente intelligente. Nella prigionia comprese che sviluppando odio si sarebbe uccisa. Prese una decisione che già nella vita normale è abbastanza difficile, ma che per una bambina nella sua condizione ha dell’incredibile: perdonò. Perdonava a Priklopil, più in fretta che poteva, tutte le cattiverie con cui lui la tormentava. Vedeva in lui quello che era: un uomo fuori strada, debole, tenuto sotto da un padre da cui cercava un’attenzione che però non ottenne mai. È perché comprese questo, che gli perdonò il fatto che lui la tenesse sotto.
A volte pensava perfino: meno male che non è successo a un altro bambino. Io sono forte. Con questa consapevolezza lavorava a un solo obiettivo: fuggire, un giorno. Quando avesse avuto la forza psichica e fisica necessaria. Il suo piano si è avverato. Ma non la sua speranza di una vita in piena libertà, perché Natascha Kampusch non è libera. È imprigionata. Di nuovo. Solo che il suo raggio d’azione adesso è più vasto. Resta controllata, ad ogni passo, solo, questa volta, dalla società.
Che non le perdona la sua trasmissione ormai interrotta sul canale austriaco Puls4, in cui intervistava personaggi famosi. Si pensa che sia ricca e le si rinfaccia, a volte in modo volgare, di viaggiare con la metropolitana anziché in limousine – che nella realtà possiede tanto poco come i molti soldi che le vengono attribuiti; alla fine ha ereditato la casa di Priklopil, come risarcimento. La si accusa di presunzione, perché voleva sostenere finanziariamente progetti di pubblica utilità e non ha mantenuto la sua promessa.
Non poteva mantenerla. Perché le donazioni che era riuscita a raccogliere non bastavano per l’istituzione di una fondazione, che necessita di una somma minima. Il fatto che né i soldi né il lusso significhino qualcosa per lei, è probabilmente il motivo per cui non approfondisce il sospetto che una parte sostanziale delle donazioni sia sparita attraverso canali più torbidi. […]
A Natascha Kampusch fa male che le chieda i dettagli della sua prigionia, anche più tardi, davanti alla videocamera di uno studio televisivo di Vienna. Per sette giorni, ogni giorno per alcune ore. Respinge, passa al contrattacco e interroga me. La videocamera corre, noi chiacchieriamo. Trenta, quaranta minuti. Molte informazioni da me, quasi nessuna da lei. Ma a un certo punto smette di opporsi alle mie domande e si concentra su se stessa. Non vola una mosca. Abbassa lo sguardo, sprofonda come in un ascensore di vetro – là, dove ha registrato tutti gli orrori.
Sembra quasi li legga. Sottovoce, quasi monotona. Con un distacco, come se quello che racconta non avesse nulla a che fare con lei. E improvvisamente l’ascensore immaginario è di nuovo su, e Natascha Kampusch ne esce. Dice energica che ha bisogno di una pausa. Salta su in piedi. Mangia, beve, ride. E mi rimprovera di andare troppo a fondo nell’intervista. Minuti dopo è di nuovo seduta davanti alla camera. E il gioco ricomincia. […]
COMMENTI DEI LETTORI:
theobald tiger
Adesso quindi anche “Die Zeit” salta sul treno in corsa e ci fa conoscere live la cella di Natascha Kampusch.
Questa donna è semplicemente ossessionata dai media. La maggior parte della gente qui in Austria non riesce più a sentire né a vedere il gran daffare che si dà questa donna sui media.
Che nessuno mi venga a raccontare che un comportamento del genere dovrebbe essere utile ad elaborare meglio il vissuto.
Scusate l’espressione, ma il circo che vien fatto attorno a questa donna fa solo vomitare.
[Ndt: seguono 3 commenti di risposta, in difesa della bontà dell’articolo e sull’inopportunità dei giudizi ‘da esperto’ di “theobald tiger”, che risponde ancora:]
Al contrario di voi ho seguito i resoconti sul rapimento e la prigionia di N. Kampusch a partire dalla sua fuga – su giornali austriaci seri.
La signora Kampusch ha familiarizzato molto in fretta – con l’aiuto dei suoi „ consulenti ” – con lo show-business, e da osservatori imparziali si poteva percepire chiaramente che non si trattava tanto di elaborazione del vissuto, ma di ricerca di attenzione pubblica e – soprattutto – di soldi. E di pubblico ne ha avuto più che a sufficienza negli ultimi 3 anni.
Fra l’altro: le indagini sul caso da parte del pubblico ministero sono ormai chiuse e la teoria dell’unico colpevole a quanto pare non lascia dubbi. Questo però più che altro perché il pubblico ministero non vuole che sorgano dubbi sul fatto che anche altre ipotesi sarebbero possibili e mette così a tacere gli intoppi occorsi durante il ritrovamento e l’interrogatorio di N. Kampusch. I dubbi sul resoconto dato dalla signora Kampusch sullo svolgimento dei fatti e sulla durata della prigionia però restano, perfino secondo gli esperti legali.
Quindi statevene alla larga con le vostre accuse!
Traduzione di R.C., a questo link l’articolo completo in lingua originale.
Su YouTube si trova poi il documentario prodotto dall’ARD nel 2010, che Jelinek cita tra le fonti di Winterreise: in originale tedesco e in tedesco/inglese (sottotitoli in inglese)
Nota: ho scelto di tradurre questo articolo perché, oltre a spiegare piuttosto chiaramente alcune dinamiche affrontate nella quarta parte di Winterreise, è stato pubblicato in un periodo di poco precedente la sua stesura. Da allora, il caso Kampusch non ha comunque finito di fare scalpore. Dopo l’autobiografia 3096 Tage (3096 giorni), pubblicata nel 2010, nel 2013 nelle sale cinematografiche di lingua tedesca è uscito anche il film tratto dal libro stesso. Nel film, a differenza che nel libro, è presente una scena di violenza sessuale, argomento molto discusso, ma che finora non aveva trovato risposte. In un’intervista a Günter Jauch, la stessa Kampusch ha ammesso di avere subito degli abusi da Priklopil, ma aggiunge anche di non volerne parlare. L’opinione pubblica pare continui ad essere di altro parere.