Riflessioni su “La Cultura si Ribella”
Sabato 7 luglio si è svolta a Torino una manifestazione dei lavoratori della cultura, la prima del settore dopo circa due anni. L’ultima in ordine di tempo, se non sbaglio, è stata quella dei lavoratori del Teatro Regio.
Nel frattempo in città ci sono state manifestazioni di studenti, l’occupazione della sede Edisu in via Verdi 15 da parte dei borsisti, manifestazioni NoTav, dei dipendenti della Rai di Torino, dei migranti Sans Papier etc. etc..
Su tutto il territorio nazionale c’è stato fermento: a Roma l’occupazione del Teatro Valle, a Palermo quella del Teatro Garibaldi, a Venezia quella del Teatro Marinoni, a Messina quella del Teatro Coppola, a Milano quella della Torre Galfa etc. etc.
In confronto, nel mondo della cultura torinese si è mosso poco, perciò la notizia della manifestazione è stata accolta come una cosa positiva. Infatti la pagina Facebook relativa alla manifestazione conta 493 adesioni.
Nel luogo della riunione, però, eravamo non più di un centinaio, pochi in particolare i teatranti. Sui cartelli appesi al collo dei manifestanti alla partenza dal cortile della Cavallerizza Reale spiccavano le professioni: trucco e parrucco, regista, documentarista (con specificazione “marginale” o “marginalissimo”), elettricista, macchinista, attrice, attore, direttore della fotografia, attrezzista, comparsa, autore etc. etc.
Ultimati i preparativi, formata la catena umana e ascoltate le raccomandazioni: “ci saranno operatori, fotografi e giornalisti, non sorridete né salutate. Siamo a una manifestazione di protesta” partiamo sotto il sole battente. Una banda di musicisti armata di tamburi, fisarmonica e tromba apre il corteo. Attraversiamo via Rossini, via Verdi e via Montebello e compatti ci sediamo davanti all’ingresso del Museo del Cinema. Viene srotolato un primo striscione “La Cultura è lavoro” davanti alla facciata della Mole e in seguito un altro, con su scritto “La Cultura si Ribella”, dal tempietto dove ancora c’è l’orribile collare installato per il 150° anniversario dell’unità d’Italia.
Delimitiamo uno spazio circolare in cui alcuni colleghi ricreano un set cinematografico con la relativa concitazione, le urla, i fari e al “motore – ciack – azione” si crolla tutti a terra. Una voce legge alcune righe in cui si rivendica l’importanza del settore Cultura sia a livello nazionale che regionale, dei tagli degli ultimi anni, delle sproporzione di sovvenzionamenti per i “grandi eventi” etc. etc. (più tardi un’esponente – se non sbaglio – del Comitato Emergenza Cultura farà notare che il sostegno garantito dal sindaco Fassino al Teatro si limita alle stagioni dello Stabile e del Regio, segnando la condanna delle piccole compagnie che lavorano da anni sul territorio).
Poteva finire qui, con lo srotolamento degli striscioni e la lettura del testo di protesta. Un primo segnale lanciato, non proprio una ribellione, ma una cosa fatta con una sua dignità.
In una città in cui si fa fatica non solo a lavorare, ma anche a conoscersi e inserirsi nei circoli di persone che lavorano in ambito culturale, ritrovarsi in una manifestazione è stato comunque un momento significativo.
Peccato che la manifestazione sia invece proseguita con un’azione di flash-mob data da una serie di ‘scenette’ rappresentative del lavoro nel cinema, fatte di registi isterici ed egocentrici, attori incapaci e tecnici indaffarati; ogni volta la scena veniva interrotta per un motivo riconducibile all’assenza di fondi, dopodiché venivano date informazioni sulla situazione.
Ecco, tutto questo è risultato un po’ imbarazzante. Non solo per l’evidente scarsa preparazione delle ‘scenette’, ma anche per l’eccesso d’ego di alcuni partecipanti, che ne hanno ulteriormente peggiorato la resa.
Chiedere finanziamenti a sostegno di un’arte di cui poi si dà una pessima dimostrazione pratica, rischia di essere quanto meno controproducente. La mia attenzione, infatti, era focalizzata più sulla bassa qualità scenica che non sul messaggio che questa voleva veicolare.
E forse in me il fastidio nasce dal vedere rappresentato il lavoro davanti alla macchina da presa, e di conseguenza quello culturale, come un lavoro in cui tutti sono bravi a farlo.
Ma al di là di tutto questo, mi sono poi chiesto se la notizia fosse stata condivisa a sufficienza, o se ancora una volta non stessi partecipando a un qualcosa che, seppur presentato con intenti collettivi, era in realtà risultato dell’iniziativa di un nucleo ristretto di operatori, maestranze e artisti legati soprattutto al cinema, e non alla cultura, come invece recitavano gli striscioni.
La comunità dei teatranti torinesi è piuttosto ampia, molte le associazioni e i gruppi sia professionali che amatoriali ma, viene da chiedersi, esiste una ‘comunità’ di teatranti? Esiste e ha snobbato la manifestazione? Esiste e non è stata sufficientemente coinvolta?
Satyrikon ha ospitato la lettera inviataci da Tatiana Lepore (che si è data tantissimo per la buona riuscita della manifestazione) dando un po’ per scontato che, essendoci già state le riunioni citate nella stessa lettera, molti teatranti e operatori culturali fossero stati contattati e coinvolti anche a livello organizzativo. Forse anche abituati a non avere troppa voce in capitolo nella macchina teatrale torinese, non ci siamo troppo stupiti di non essere stati chiamati ad organizzare; ma abbiamo dato volentieri una mano condividendo la lettera sul blog e, nei pochi giorni rimasti, diffondendola attraverso i nostri canali.
Visti i meccanismi di questa manifestazione, però, ora mi chiedo se a unire i lavoratori della cultura non sia, al momento, soltanto la scarsità di denaro.
Perché se è solo la richiesta di una maggior quantità di fondi per “sostenere la produzione culturale piemontese” ad unire, l’unione rischia di durare poco e di ottenere ancora meno. Non credo che con il reintegro dei fondi, che sono venuti a mancare negli ultimi anni, potrà avvenire una rinascita culturale in questo paese. Non solo e non necessariamente, perché non è una restaurazione ciò che serve.
Ad esempio: che senso ha ottenere i fondi per produrre uno spettacolo se poi non si riesce a mettere in piedi una tournée degna di questo nome?
È’ stata una buona cosa manifestare. Ma c’è da pensare a un avvenire del lavoro culturale che non dipenda dalle concessioni di qualche politico, che crei legami con ciò che accade in altri luoghi di lavoro e di lotta, che crei condivisioni vere, che hanno ben poco a che vedere con quelle su Facebook. Forse c’è da cominciare a ripensare il mestiere, al netto di ogni egoismo, e smetterla di cercare singole soluzioni settoriali.
Con le baruffe chiozzotte non si fa resistenza.
mi interessa sempre leggere ciò che scrivete tu e roberta )